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SOMMARIO del 143

Scuola pubblica..., di Piero Calamandrei
Senso delle vacanze, di Marina Diaz
Manovra e armi, di Alex Zanotelli
Da Lampedusa, di Alessandra Ballerini
Terremoto. Peggio ora, di Anna Colasacco
L’Aquila città estrema, di Patrizia Tocci
Sei terremotato..., di Giusi Pitari
“Turiste” nel terremoto, di Silvia Comisso
I care - Mi sta a cuore, di P. Iannamorelli
Fiori di pace 2011, di MIR Valle d’Aosta
Politica “altra”, di Moreno Biagioni
Difficoltà dell’inte(g)razione, di Laura Tussi
Crisi del capitalismo?, di Leonardo Boff
Magia delle parole, di Giovanni Covini
Alle radici delle parole, di Angelica Zappitelli
Obbedire alla coscienza..., di Valeria Di Meo
La decrescita è donna, di Andrea Bertaglio
Viaggio in Palestina, di Pierangelo Monti
Ad Aldo Capitini, di CIPAX ed altri
Aldo Capitini, profeta, di Raffaello Saffioti
Come è stato possibile?, di Mario Setta
L’angolo della Poesia
I libri consigliati da Qualevita
Lettere a Qualevita
La pagina Celestiniana
Sfruttamento planetario, di Philipp Hedemann
La pagina della Bibbia
Giorni Nonviolenti 2012
Qualevita notizie

 

 

* Secondo numero della rubrica: "ALLE RADICI DELLE PAROLE

 

 

EDITORIALE del numero 143

CONTINUARE A PRENDERE O RESTITUIRE?

Giovanni COVINI


Nel giro di pochi giorni terremoto e guerra. Nucleare e petrolio. Energia. Sia in un caso che nell’altro si scatenano conflitti. Se c’è una cosa utile nei conflitti è che si fanno chiare le ragioni dell’uno e dell’altro. Quindi adesso come non mai sarebbe il momento buono per capire. Da cittadino comune mi informo e sento come posso, ma ho sempre la sensazione di non capire bene. Di non capire veramente. Perché sarà che sono tardo ma mi sembra che le parole che dovrebbero essere usate per dire vengano usate per confondere.
Faccio un passo indietro rispetto ai disegni macroeconomici e politici e rimango a considerare il problema dell’energia. Di queste due strade sbagliate – a mio parere – che abbiamo preso a livello planetario. Nel caso del petrolio abbiamo scelto di consumare ciò che non si può riprodurre, nel caso del nucleare di produrre scorie che non potranno mai essere eliminate. Mi domando cos’abbiano in comune queste due scelte e mi sembra di vedere che entrambe escludano il futuro. Puro presente.
Posso utilizzare solo le categorie di pensiero che conosco per riflettere sulla cosa. E mi dico che le azioni sono mosse da desideri, come per i personaggi. Credo che le azioni del nucleare e del petrolio non siano dettate dal desiderio di risolvere il problema dell’energia, è fin troppo evidente. Perché sarebbero azioni incongruenti. Dovremmo riparlare dei desideri. Di questo sistema che non si riesce a frenare (non vi suole frenare?). Che cosa vogliamo veramente, non che cosa crediamo superficialmente di volere.
Fa parte del ciclo della vita dell’uomo. Dopo una certa età, in un percorso di maturazione completo pare compaia la voglia di restituire. È un momento fantastico perché significa aver tanto ricevuto, averlo capito, essere ancora in condizioni di agire e di poterlo fare con esperienza. E aver accettato di essere di passaggio, aver voglia di compiere questo servizio al mondo che in realtà è il nostro momento più alto: restituire alla terra quello che abbiamo ricevuto e rielaborato, riorganizzato.
Esiste un modo più forte per definire la nostra identità che restituire al mondo il nostro sguardo frutto dell’esperienza e della passione della nostra vita? Ora guardo le centrali giapponesi e le bombe in Libia e mi sembra che l’azione sia ancora prendere. Ancora un’azione a senso unico, ancora un’azione infantile. Bambini. Oltretutto, bambini impauriti e sfiduciati. Il paradosso è che quest’immaturità ci rende inabili a fare proprio quel che vorremmo fare: prendere, appunto. Siamo nel mezzo di un sistema naturale che ci offre energia in tutte le forme possibili. Siamo arrivati a poterle utilizzare. Ma non le prendiamo. Ci limitiamo e fissiamo su quel che sappiamo fare nella narcisistica e patetica idea di produrci da noi la nostra autonomia. Oltre a quella economica, c’è secondo me anche la ragione della paura.
Affidarci al vento. Affidarci al sole. All’acqua. Si è visto che è tutt’altro che un’astratta poesia. Ma la parola difficile  da digerire per noi è affidarci. Non siamo cresciuti abbastanza. Non abbiamo capito che abitiamo il mondo e il mondo pensa a noi. Che dipendiamo dalla terra e che la terra ci offre quello che ci serve. Questi conflitti che vedo, quindi, rendono chiare le istanze profonde dei contendenti. La fame di potere che deriva dalla paura di non averne. I leader sono tutti molto spaventati. Basta guardare le loro facce nelle fotografie. Tutti. Americani, arabi, europei. Uomini e donne. Naturali e liftati. Tutti spaventati a morte.
Un bicchier d’acqua e una bella giornata: bisognerebbe ripartire da lì. Sentire come ci fa bene un bicchiere d’acqua e com’è bello il vento che ci passa addosso. Lo sentiamo bello perché ci somiglia. Romanticismo? Mi piacerebbe, invece temo sia l’unica scelta anche a livello economico e politico. Imparare a ricevere. E restituire.

 

È con vera gioia che offriamo il secondo contributo della nostra più giovane collaboratrice, una studentessa che ha da poco conseguito la maturità classica e che ha esordito su Qualevita ad aprile, con un vibrante e appassionato articolo sulla scuola.
Questa pubblicazione vuole essere un profondo atto di Giustizia. Il presente articolo nasce infatti come elaborato scolastico destinato ad un concorso sul tema dell’obbedienza, in riferimento alla vicenda di Padre Pio. Il componimento è stato preliminarmente contestato perché conteneva “troppi riferimenti culturali” e perché illustrava un concetto di obbedienza “assai poco condivisibile”. L’autrice è stata dunque costretta a rimaneggiare il proprio lavoro, con il risultato di un testo del tutto snaturato rispetto alle proprie convinzioni e al proprio modo di scrivere. Al momento della consegna definitiva, ha pertanto deciso di non presentarlo più.
Affidiamo all’impressione dei nostri lettori questo saggio, nella versione originaria, che ci è parso meritevole per molti motivi, ma soprattutto per la sorprendente maturità che denota, considerata l’età della scrivente.

 

OBBEDIRE ALLA PROPRIA COSCIENZA.
E A NIENT’ALTRO

Valeria DI MEO

Il più grande e insopprimibile istinto dell’essere umano è senz’altro quello che lo induce a perseguire, in ogni circostanza, la libertà. È dunque evidente come il concetto di obbedienza, che implica un sedare la propria volontà in virtù di quella di qualcun altro, possa stridere con l’impulso alla libertà che da sempre caratterizza l’essere umano. Tuttavia è stato l’uomo stesso, nel corso dei secoli, a fare dell’obbedienza un valore, autodefinendosi virtuoso quando è stato capace di rispettarlo.
Il concetto di obbedienza, per lungo tempo prerogativa dei sudditi di un sovrano assoluto, è caduto progressivamente in disuso in ambito laico a causa del proliferare di regimi democratici che presuppongono sistemi legislativi voluti dagli stessi cittadini e da essi stessi amministrati.
L’obbedienza è rimasta dunque, soprattutto ai nostri giorni, strettamente connessa all’ambito ecclesiastico o, al massimo, a quello familiare. Essa rappresenta infatti uno dei voti da pronunciare per gli uomini di Chiesa e dunque, per il buon cristiano, si configura senza alcun dubbio come un valore.
Nel mondo laico invece oggi più che mai, in una società che vive in un incessante progredire e che talvolta pecca di presunzione ed eccessivo individualismo, appare il paradosso dell’obbedienza-valore, che l’uomo moderno vive con enigmaticità e persino timore di perdere la propria preziosissima libertà individuale.
Il distacco e l’insofferenza nei confronti dell’obbedienza si acuiscono nel mondo dei giovani, i quali mal sopportano ogni tipo di imposizione da parte di qualsivoglia autorità precostituita. Questo vissuto è tipico dell’età adolescenziale, non solo di oggi ma di ogni epoca storica, poiché essa rappresenta un periodo cruciale nella vita di un individuo, in quanto avviene il progressivo passaggio all’età adulta e si afferma la vera e propria personalità di ognuno. Da questo processo scaturisce il desiderio di liberarsi di tutti i condizionamenti e le imposizioni esterne, per dare unicamente ascolto alla propria nuova personalità. L’obbedienza quindi, in questo contesto, appare unicamente come una minaccia e un’incomprensibile imposizione al proprio Io, in via di affermazione.
Ma il vero e proprio significato dell’obbedienza si trova in realtà a metà tra il “valore” e l’“imposizione”. Essa dovrebbe essere vissuta secondo il concetto kantiano di adesione alla legge, ossia dovrebbe presupporre una piena aderenza della propria volontà alla prescrizione. Un ordine quindi non dovrebbe essere eseguito a priori per compiacere l’autorità o per auto compiacersi dell’immediatezza con la quale si ottempera ad esso, ma piuttosto per un’intrinseca convinzione che quanto prescritto è pienamente aderente al proprio patrimonio di valori.
L’obbedienza, vissuta in maniera sana, dovrebbe essere la conseguenza di una lunga e accurata riflessione circa i termini dell’ordine per comprendere se esso è o meno ragionevole. Esemplare a tale proposito è l’esempio di Padre Pio, il quale spesso reagiva in maniera negativa ad alcuni ordini provenienti dalla Chiesa, ma poi quando questi giungevano in forma scritta e definitiva, non esitava ad obbedire e lo faceva con piena serenità. Tale atteggiamento può apparire paradossale ma in realtà non lo è: egli infatti rifletteva accuratamente sugli ordini e, constatata la loro utilità e ragionevolezza, obbediva poiché essi divenivano lo strumento per realizzare quella visione del mondo che apparteneva anche a lui. Egli dunque, al momento di obbedire, non era elemento passivo ma agiva con piena consapevolezza che ciò che faceva era giusto.
Questo concetto è stato anche ribadito nel Concilio Vaticano II in cui si è appunto affermato che gli uomini di Chiesa sono autorizzati a disobbedire agli ordini quando questi sono irragionevoli e contrastano con la morale etica e religiosa. L’obbedienza dunque, intesa come azione consapevole, non è certo un valore negativo e, soprattutto in situazioni di confusione e di disordine, può essere l’unica via giusta da intraprendere per il bene proprio e per quello comune.
Significativo è l’esempio di Garibaldi che, convinto sostenitore di un’Italia repubblicana, non esitò, nel momento in cui comprese che il neo stato aveva bisogno della salda guida di un monarca, a consegnare i territori conquistati al re Vittorio Emanuele II con la celebre espressione: “Obbedisco”. La sua obbedienza non era certamente frutto di una scarsa fermezza o di un’insufficienza di coraggio, bensì naturale prodotto di un’attenta riflessione e di un’ammirevole rinuncia al vedere egoisticamente prevalere le proprie intenzioni in virtù di un bene maggiore.
Questo episodio mostra che l’obbedienza potrebbe ancora trovare spazio nel mondo dell’uomo moderno e, soprattutto, in quello dei giovani, se essa fosse spogliata di quella patina di rigido dogmatismo che la rende tanto sgradita agli occhi degli amanti della libertà. Un ordine deve essere anzitutto ragionevole e poi deve assumere la forma di amorevole consiglio, in particolare per i giovani, cosicché essi possano interiorizzarlo e comprenderne l’utilità.
Bisogna quindi, più che insegnare ad obbedire, insegnare a pensare e ad avere una morale retta e onesta, in modo che ognuno possa obbedire a se stesso più consapevolmente e senz’altro più proficuamente rispetto alla cieca obbedienza tributata ad un’autorità estranea.


 

 

I CARE - MI STA A CUORE

Pasquale IANNAMORELLI

 

Durante l’estate ho ripercorso idealmente il sentiero che conduce a Barbiana. In quel luogo vibra ancora la grande anima di don Lorenzo Milani. È nei momenti di smarrimento – e quello che stiamo vivendo è di sbandamento totale – che si va alla ricerca di chi sia in grado di indicarci la rotta. Non servono trattati, vademecum, regolamenti. Occorre qualche sentinella che con la sua presenza, la sua testimonianza diriga i nostri passi a rivedere la luce.
Nelle austere stanzette di Barbiana si avverte, anche fisicamente, la presenza di una “sentinella”. Colpisce ancora quel cartello con la scritta “I care”, ormai logorato dal tempo ma ricolmo di stimoli profetici.
“Me ne importa, mi sta a cuore”. Siamo figli di una civiltà cristiana che si riempie la bocca di amore del prossimo. Ma poi non siamo ancora convinti che il prossimo deve starci a cuore semplicemente perché è un essere umano come noi.
E allora un sorriso, una carezza, un gesto di tenerezza, come pure una seria e instancabile lotta nonviolenta per eliminare le ingiustizie e le oppressioni diventano momenti di “cura” autentica e credibile.
Prendersi cura delle persone, degli animali, delle piante, ma anche di pietre inanimate che sorridono attraverso le loro venature e gli spigoli imperfetti significa sentirle dentro, rispettarle, stimarle, accoglierle in uno spirito di grande quiete.
Una macchina non è in condizione di lenire un affanno, di praticare una carezza, di mettersi in una posizione di silenzioso ascolto, quell’ascolto che rende meno lancinante un dolore, di offrire l’attenzione che fa sentire importante chi ci sta di fronte. Perché la macchina non avrà mai un cuore.
Prendersi cura implica una bella dose di intimità, richiede rispetto, accoglienza, comunicazione di calma, serenità, pace, in una parola, capacità di amare.
Prendersi cura significa entrare in sintonia con tutto ciò che ci circonda, stabilire armonia, simpatia, comunione. Ed è chiaro che occorre capovolgere il nostro modo tipicamente utilitaristico di intrattenere i rapporti con l’altro: non più il “logos” dei greci, la ragione, ma il “pathos”, il sentimento. Ho sempre guardato con profondo rispetto alla civiltà degli Indiani d’America, spazzati via dalla smania di profitto e di accumulo della maggioranza nordamericana. Erano società contrassegnate dal profondo senso della sacralità dell’universo e dalla venerazione di fronte al mistero della vita e della Madre Terra.
Prendersi cura è mettere a nudo tutte le caratteristiche che ci rendono “umani”. Significa sederci di fronte alla persona delusa e trasmetterle consolazione e speranza. Significa costruire con pazienza e amore legami affettivi che rendono le persone, soprattutto le più deboli e indifese, preziose e portatrici di valori. I poveri hanno bisogno di un pezzo di pane per calmare i morsi della fame, ma si aspettano che ci si occupi di loro come esseri umani e, insieme con loro, si lotti per uscire dalla logica dell’economia, delle borse, della crescita illimitata di beni accaparrati da persone sempre più arricchite, a scapito della dignità e della giustizia nei confronti di miliardi di impoveriti.
La cura, la premura, fa rima con “ternura”, una parola tanto cara ai latinoamericani e che noi traduciamo con “tenerezza”.
Tenerezza è l’interesse, la vicinanza, l’attenzione che presto all’altro, magari e forse soprattutto senza farmene accorgere.
Tenerezza è accompagnare chi cresce, in età ma anche lungo un cammino culturale: quanta responsabilità nelle intelligenze e nei cuori degli insegnanti che in questi giorni riprendono le loro fatiche a scuola, nel campo dell’educazione, esatto contrario dell’indottrinamento!
E poi la tenerezza è com-passione, è inter-esse per chi incontro ogni giorno, è solidarietà, è complicità nella lotta per rendere più vivibile e più umana la nostra vita e la vita di tutti.
Per me cristiano, cellula di una società che presuntuosamente si autodefinisce “cristiana”, la tenerezza è Gesù che dialoga con la Samaritana, tre volte dannata e pertanto da allontanare: come adultera, come appartenente a un popolo odiato dai Giudei, come donna. Gesù non la rimprovera né si vergogna di lei, ma la chiama “donna”, come ha chiamato sua madre a Cana e con lei parla delle cose più importanti, non di sciocchezze e… nemmeno di peccati.
L’indimenticabile Davide Turoldo, in una delle sue ultime composizioni scriveva che “la tenerezza è il tesoro dei credenti e degli amanti”. Sì, perché il senso vero dell’«I care - Mi sta a cuore» è possedere una fede, una qualsiasi, non importa quale, e avere un cuore rigonfio di amore. Possibilmente senza stanchezze o ripensamenti.
Pasquale IANNAMORELLI

 

 

 

 

 

* ALLE RADICI DELLE PAROLE

Angelica ZAPPITELLI

 

«L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima delle parole. Una mente etimologica trae infiniti godimenti dalle parole, i quali sono ignorati da coloro che non considerano le parole se non come suoni convenzionali» (Alberto Savinio)

 

Vogliamo proseguire la nostra “ricerca delle radici” continuando a riflettere sulle parole legate alla scuola, convinti come siamo della centralità e, magari fosse così per tutti, della bellezza di questa esperienza nella vita di ciascuno. Cogliamo l’occasione per augurare di cuore a tutti gli studenti un fecondo anno scolastico e, a coloro che non lo sono più, una vita sempre ricca di tanto “studio”… nel senso etimologico del termine!

SCUOLA deriva dal greco scholé, che significa “tempo libero, riposo, pausa”; per il tramite del latino schola ha assunto il senso di “tempo libero dedicato allo studio”, per poi passare a indicare in italiano una “istituzione organizzata sistematicamente a scopo di istruzione e di educazione”. Si nota subito, nella trafila del vocabolo, la perdita del concetto di libertà: caratteristica che prima di ogni altra dovrebbe invece impregnare l’attività didattica, se davvero la si concepisce come arricchimento fecondo dell’intelletto non meno che dello spirito.

STUDIO deriva dal latino studium, che ha una gamma di significati quanto mai ricca e affascinante: indica infatti prima di tutto un “impulso interiore”, che si traduce in “applicazione, diligenza, zelo, cura”, e dunque “desiderio, ardore, passione, inclinazione” per qualcosa o qualcuno; il primo gruppo di sinonimi si riferisce agli aspetti concreti, pratici della dedizione; il secondo invece al senso figurato, alla tensione puramente interiore che ci anima verso qualcuno o qualcosa. Non è un caso, ed è bellissimo, che la lingua latina si avvalga del medesimo termine per esprimere entrambi i concetti: la diligenza e l’applicazione pratica, perché producano risultati davvero efficaci, non possono prescindere dalla passione che accende e moltiplica le energie intellettuali e che anima lo studio come continua, incessante ricerca.

ISTRUIRE / INSEGNARE: solo apparentemente sinonimi, indicano etimologicamente due azioni diverse. Il primo si riconnette al verbo latino struere, che indica il “collocare del materiale in pile, ammucchiare, accatastare”, e per estensione “costruire, fabbricare, edificare”, ma anche “preparare, disporre, apparecchiare”; concetti che illustrano l’attività didattica come “costruzione” (o “coltivazione”) quotidiana di menti e anime e come loro “equipaggiamento”, “fornitura di strumenti” (la parola instrumentum ha infatti la stessa radice di struere), “predisposizione” alla vita. Il secondo deriva dal latino tardo insignare (che racchiude il termine signum, cioè “segno, impronta”), ossia “incidere, imprimere dei segni (nella mente)” che, si spera, i ragazzi moltiplichino e facciano fruttificare autonomamente in una costante ricerca di sapere.

APPRENDERE / IMPARARE: anche queste parole esprimono due atti differenti. La prima deriva dal latino adprehendere, cioè “afferrare (con la mente)”; il prefisso ad- conferisce al verbo semplice prehendere un valore intensivo, indicando, come moto a luogo, un “protendersi verso”. La seconda risale al latino parlato imparare, dove il verbo base parare significa “procurare, acquistare” e il prefisso in- indica un movimento verso l’interno: dunque procurarsi qualcosa “dentro”, riflettendo e meditando su quanto appreso. Osserviamo quanto nella percezione comune i due termini analizzati suscitino un’idea di passività (“apprendere una regola matematica”, “imparare un capitolo di storia”), mentre invece le loro radici rimandano a processi più che mai attivi e vitali.

 

 

 

Numeri Arretrati di QUALEVITA