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SOMMARIO del 131

Società della “distrazione”
La mano invisibile, di Frei Betto
Tra neoliberismo e Vangelo, di B. Sorge
Generazione decrescita, di A. Bertaglio
La nave dei migranti, di Marina e Tina
Essenzialità, di Pasquale Iannamorelli
Di destra, di sinistra, di L. De Carlini
Se un giorno l’egoista..., di G. Tammaro
Centrali nucleari... di Giorgio Nebbia
Ruolo politico dei GAS, di F. Gesualdi
L’inferno di Gaza, di Lucia D’Augelli
C’è un’altra America, di Gianni Novelli
Dal Sud della terra, di Enrico Turrini
Sapienza e profezia, di padre Dario
Rivoluzioni dal basso, di Davide Guidi
Cosa sta succedendo?, di V. Andraous
Aldo Capitini..., di Giuseppe Moscati
Carnevale a Scampia, di M. Pignataro
Monasteri 3° millennio, di M. Pallante
Ronde o presenze amiche?, di G. Barazza
Giuliano Pontara, di Remo de Ciocchis
I libri consigliati da Qualevita
Lettere a Qualevita
La pagina Celestiniana
Oltre l’indifferenza, di Carlo Boneschi
La pagina della Bibbia
Campi Estivi MIR-MN
Qualevita notizie

 

 

EDITORIALE del numero 131

Ettore MASINA

Vorrei provare a riflettere con voi su quello che mi sembra il quesito fondamentale: cos’è vita? Lo farò, per non impantanarmi nelle astrazioni, parlando di tre miei amici.
Laura A. è, in seguito a un grave incidente stradale, tetraplegica: vuol dire che non muove braccia e gambe, soltanto un polso e una mano, con la quale però non sempre riesce ad afferrare oggetti e soltanto leggeri. L’avevo conosciuta, ragazza, trent’anni fa, l’anno scorso l’ho ritrovata ricoverata al Gervasutta, un istituto di riabilitazione, a Udine. Guida con perizia una carrozzina elettrica; si è fatta costruire una specie di braccialetto con un punzone con il quale riesce a scrivere al computer. Al Gervasutta è stata curata con profonde umanità e bravura terapeutica, ma Laura è soprattutto una lottatrice. Adesso che è tornata a casa, so che al Gervasutta la ricordano e la propongono, a chi è tentato di lasciarsi andare, come esempio di sorridente coraggio, di voglia di vivere.
Anche il mio amico Luigino Rocchi (1932-1979) era diventato tetraplegico, a causa di una distrofia muscolare progressiva. Scriveva col mento, “armato” di un aggeggio da lui stesso progettato. Scriveva a malati disperati per consolarli, lui  che era un crocifisso vivente: e parlava a una radio locale e amava pregare in compagnia e in compagnia ridere e scherzare con la sua voce grossa, di popolano marchigiano. Dicono che lo faranno santo. Lasciò scritto: “Essere capaci di amare significa possedere la capacità di restare vivi e non di apparire vivi. La vera sofferenza, la terribile sofferenza, quella che veramente mi fa orrore, è non essere più capaci di amare”.
So che Rosanna Benzi, la ragazza nel polmone d’acciaio” , diventata famosa negli anni ’80, di notte, qualche volta, piangeva; me lo raccontò un giorno la sua mamma, che viveva con lei all’ospedale San Martino di Genova: “La mattina la trovo con i padiglioni delle orecchie pieni di lacrime”. Tuttavia nessuno vide mai piangere Rosanna nelle sue giornate. Una rete di solidarietà le offriva continue occasioni di impegno. Nella camera della mia amica si parlava di Palestina e di scautismo, si redigeva un giornale, “Gli altri”, che duramente contrastava le mancanze della società nei confronti di chi soffriva emarginazione e negazione dei propri diritti. Capitava di non avvertire più il battito  soffocato della macchina che teneva viva Rosanna. Rosanna vi rimase dentro 29 anni. Qualche volta le suore del Pronto Soccorso portavano a conoscerla i tentati suicidi. Lei scrisse un libro intitolato “Il vizio di vivere”. Concludeva: “Sono contenta di aver vissuto vent’anni che valeva la pena di vivere”.
Mi pare di comprendere che dall’esperienza di questi amici (e maestri) si può ricavare una prima definizione di “vita”: vita è possibilità di relazionarsi ad altri in uno scambio di messaggi e di valori.
Ma se muovo un altro passo, dalle esperienze della mia lunga vita all’astrazione dei concetti, ecco che mi vedo costretto ad ammettere che quella definizione è stretta. Mi è  capitato di conoscere persone deformi o cieche o mute o mutilate (o molte di queste cose insieme) e per di più condannate dalla nostra società alla solitudine della miseria; e di scoprire con meraviglia in loro, se appena gli dedicavo qualche attenzione, capacità di saggezza, di umorismo, persino di cultura. E non basta. Mi è capitato di vedere più volte, anche recentemente, un documentario nazista sui “sotto uomini” e sui “pazzi” da uccidere perché privi di  una vita “degna”. Documento spietato, funzionale al razzismo dell’eugenetica che, fra il 1936 e la fine del Terzo Reich, fece più di 70 mila vittime: eppure anche in quella sequela di “mostri” e di dementi era impossibile non cogliere il lampo di un sorriso, il luccicare di una lacrima, o la manina di un bimbo tesa in confidenza assoluta al suo carnefice. Ho capito perché contro quel vero e proprio genocidio due vescovi tedeschi osarono levare con voce forte la loro condanna e uno dei più noti sacerdoti berlinesi, poi proclamato santo dalla Chiesa, Bernhard Lichtenberg, avendo più volte predicato contro l’eccidio, fu arrestato e morì mentre veniva deportato a Dachau.
Mi pare che questi maestri ci insegnino che vita è vita, anche quando le relazioni fra esseri umani sono a un livello elementare, poco più che biologico. La razionalità, brillantemente sostenuta dai carnefici, in  questi casi deve cedere al mistero se non vuole spalancare le porte a un’ immensa  carneficina. Riconoscere la vita, difendere la vita anche quando appare misera è un dovere assoluto.
Ma Peppino Englaro, con la sua tragica eroica lotta perché fossero riconosciute le scelte della figlia, ci ha posto davanti a un’altra terribile realtà; e questa realtà è che oggi la scienza è in grado di perpetuare per anni e anni una “vita” in cui ogni interscambio relazionale con altre persone non esiste più o esiste soltanto in modo subliminale - e ciò mentre è da escludere che il “paziente” possa tornare a uno stato di almeno relativo benessere. Nel primo caso, mi sembra ovvio che non ci sia più vita ma “esistenza” artificiale; nel secondo caso, quello di una impossibilità di comunicazione con l’”altro”, si tratterebbe di uno spaventoso ergastolo, nella prigione di un corpo inerte, inflitto a un innocente in nome di un terribile accanimento sanitario, di una specie di spietato narcisismo del medico curante, il quale non vuole arrendersi alla frustrazione della morte di un suo “assistito” o si lascia guidare dalla paura di conseguenze giudiziarie.  Non oso pensare alla mia sofferenza se per anni dovessi intendere  intorno a me voci alle quali non posso rispondere o voci che decidono il mio destino senza  che io possa interloquire; se io dovessi vivere lunghissime ore di solitudine o ascoltare il pianto e la fatica dei miei cari intorno al mio corpo senza poterli confortare, in una perpetua agonia.
L’introduzione del testamento biologico con la possibilità che il malato decida quale  vita gli sembri “degna” o di accettare di lasciarsi andare alla pace della morte sembra allora davvero necessaria, di fronte agli sviluppi di una tecnologia tanto più spietata perché non sorretta da altri ideali che quelli della ricerca scientifica; e il fatto che nella vicenda Englaro tanta parte della mia Chiesa non abbia saputo che ricorrere all’aridità dei manuali mi ha fatto male al cuore. Mi sono sentito accanto  all’umiltà delle suore Misericordine di Lecco che hanno curato il corpo di Eluana per anni, nell’ingenua speranza di un miracolo, e anche più a quella dell’oscuro  parroco di Paluzza (“Chi sono io per giudicare?”). Ho ritrovato la gioia di essergli amico.
E sento che se voglio esprimere la mia fede devo ricordare che è verso la casa di un padre amoroso che la morte mi avvierà. Papa Giovanni lo disse con le parole di un salmo: “Esultai quando mi dissero: Andiamo nella casa del Signore”.

 

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Un uomo si mise a sedere in una stazione del metro a Washington ed iniziò a suonare il violino; era un freddo mattino di gennaio. Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti. Durante questo tempo, poiché era l'ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro.
Passarono 3 minuti ed un uomo di mezza età notò che c'era un musicista che suonava.
Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi e poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia.
Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare.
Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l'uomo guardò l'orologio e ricominciò a camminare.

Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni. Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista. Finalmente la madre lo tirò con decisione ed il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Raccolse 32 dollari. Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.

Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo.
Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari.
Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell aveva fatto il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari.
Questa è una storia vera. L'esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metropolitana fu organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone.
La domanda era: "In un ambiente comune ad un'ora inappropriata: percepiamo la bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?".

Una delle possibili conclusioni di questo esperimento potrebbe essere:
"Se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?".

 

 

ESSENZIALITA'

(Proverbi 30, 8-9)

Per condividere ancora una volta le mie riflessioni con i lettori, prendo lo spunto da due donne – Etty e Valentina – che, pur trovandosi ora a frequentare “cieli nuovi e terre nuove”, continuano a riempire le mie giornate con la loro passione per la vita, condita da una disarmante “essenzialità”.
Etty Hillesum ha scritto nel suo Diario che “si deve essere capaci di vivere anche senza niente: esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare!”. Quando sale su quel treno che l’avrebbe condotta, insieme agli altri, ad una tragica morte, Etty ha con sé solo la sua piccola Bibbia e uno zaino. In quel momento, forse, ha pensato che “le poche cose grandi che contano”, quelle che vanno riscoperte ogni volta in se stessi, erano lì con lei, dentro di lei: erano il suo carico prezioso, il contrario delle diecimila cianfrusaglie accumulate nelle case dalla nostra mania consumista. Ed ecco perché ha potuto “lasciare il campo di concentramento cantando”.
In uno degli interminabili e dolorosissimi giorni del suo calvario, Valentina, muovendo lentamente le labbra da cui non poteva uscire nessuna parola a causa della tracheotomia, mi “disse” in maniera implorante ma perentoria: “Devi promettermi che quando torno a casa, mi farai trovare un cane”. Nella “pre”visione del suo futuro, aveva forse intuito che noi, persone che le volevamo bene, avremmo potuto stancarci. Solo un cane le sarebbe rimasto accanto senza infastidirsi. Non le serviva altro da mettere nello zaino della sua vita. Le bastava un cane.
Etty e Valentina, due persone che più di tante altre, dalla loro situazione “estrema” mi hanno fatto capire l’inestimabile valore dell’essenziale.
Essenziale è il nostro bisogno di “essere”, di comunicare, di ricevere e dare solidarietà.
Essenziale è il desiderio di tenerezza, di una carezza reciprocamente e discretamente scambiata, è l’esigenza di amore reciproco. È riscoprire il valore di “ama il prossimo tuo, perché egli è come te”, come leggiamo nell’originale ebraico dell’antico testamento.
Essenziale è una fetta di pane con un filo di olio, che meglio di qualunque altro cibo elaborato, sofisticato, costoso, è capace di saziare la nostra fame.
Essenziale è una casa che, oltre un tetto che ci ripara, un camino che ci riscalda, un letto che ci fa riposare, accoglie e protegge le persone con le quali condividiamo un pezzo significativo della nostra strada.
Essenziale è un lavoro capace di dare dignità alla vita, un lavoro non intriso di sfruttamento, un lavoro che non prosciughi tutte le nostre energie sottraendole a momenti e realizzazioni più importanti.
Essenziale è conservare viva la fiammella della speranza, della fiducia reciproca, del vero ottimismo che – come diceva Bonhoeffer – è una forza vitale che ci fa tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca.

Ho descritto solo alcuni dei comportamenti che non appesantiscono il nostro zaino e quindi rendono più leggero il viaggio. E un viaggio lieve, che non procura fatica, affanno, ansia nel camminare, diventa senz’altro più carico di gioia.
Se saremo riusciti a cogliere e a scegliere l’essenziale, non è vero che ne usciremo più impoveriti e più soli (è questa, spesso, la paura che ci porta a circondarci di cose, di troppe cose) ma – ne sono certo – molto più ricchi. E non solo interiormente.
Puntando all’essenzialità si crea più respiro, più spazio intorno a noi per incontrare ed essere incontrati, per consolare ed essere consolati, per visitare ed essere visitati, per comprendere ed essere compresi, per comunicare e ricevere comunicazione.
Non mi pare poco se davvero, disinteressatamente, cerchiamo un senso che diventi bussola per la nostra vita.
«Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il necessario, perché una volta sazio io non ti rinneghi oppure, ridotto all’indigenza, non rubi e profani il nome di Dio».