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SOMMARIO del 132

Abruzzo, Irpinia, di P. Ruggiero
Terremoto e legalità, di G. Vittorangeli
Terremoti e terremutati, di P. Iannamorelli
Razzismo respingente, di E. Peyretti
Immigrati “non respinti”, di A. Morrone
La sorte degli immigrati “respinti”
Una lettera dai disperati, di F. Berardi
Chi si ricorda di Gaza?, di M. Benjamin
L’Israele che dice no, di S. Pavone
Decrescita e migrazioni, di M. Pallante
L’acqua è un bene di tutti, di F. Gesualdi
Spegni lo spreco, di M. Correggia
La sobrietà non è privazione, di A. Sella
Colpa degli eletti o..., di R. Saffioti
Fine delle ideologie?, di L. De Carlini
Ho chiamato... “fortuna”, di M.G. Di Rienzo
Codex alimentarius, di F. Manco
Schiavi e badanti, di J. P. Pougala
Biennale della democrazia, di E. Peyretti
Non sputiamo sul volto di Dio, di P. Farinella
Bambini & mamme
La pagina della poesia
1° Museo-Laboratorio per la Pace in Italia
I libri consigliati da Qualevita
Lettere a Qualevita
La pagina Celestiniana
La pagina della Bibbia
Qualevita notizie

 

 

EDITORIALE del numero 132

TERREMOTO. CHE COSA RESTA?

Enrico PEYRETTI

Il terremoto, insieme alla pietà per le vittime, sia i morti che i disastrati (in guerra si diceva: i sinistrati), fa riflettere, giustamente, sulla eventualità, mai esclusa, di una simile sventura per noi.
A parte la morte, propria o delle persone care, è possibile perdere tutto: la casa, i beni materiali, pochi o tanti, che la casa contiene, e i beni non economici – ricordi, libri, documenti familiari, oggetti cari, strumenti di lavoro – fino a quel bene immateriale che è l’ambiente di casa come tale, quell’atmosfera impregnata di momenti di vita, di presenze passate e attuali, e anche future, venienti. La casa è il corpo della vita che abbiamo in comune con familiari, ospiti, amici, come l’intero ambiente naturale è il corpo comune a tutta l’umanità. Perdere la casa è una specie di morte. Che cosa ci resta?
Immaginiamo, con partecipazione, chi ora in Abruzzo abita una tenda posticcia, con addosso i soli abiti rimastigli, senza il proprio letto, la propria cucina, perdute quelle mura e quel tetto che solitamente utilizziamo distratti, senza apprezzarne la silenziosa umile protezione. La persona ridotta al proprio corpo, e già fortunata se questo è vivo e integro, è costretta all’essenziale di sé....
Il superstite al terremoto, al naufragio della propria casa, è una persona denudata. Sente il freddo, il vuoto, lo spavento, e forse la vergogna, di un corpo privato di ciò che lo completa: quell’aura materiale e simbolica che chiamiamo casa, immagine dell’anima che conteniamo, ma anche ci circonda e sopravanza, ci avvolge, ci protegge, ci dà riposo e respiro, ci conduce e accompagna nel tempo. Perciò la casa è un diritto vitale, che la società deve assicurare a tutti, come la cura della vita. E non deve essere oggetto di speculazione, proprio come il corpo umano.
La persona ridotta in quella solitudine e spo-gliazione deve cercare in se stessa le risorse che fino ad un momento fa attingeva dal suo ambiente personale e affettivo. I ricordi cari non sono più fotografie e scritti, ma pura memoria interiore. Le conoscenze non sono più nei libri, ma tutte, per quanto è possibile, nella mente. Gli strumenti della vita quotidiana non ci sono più, occhi e mani ne cercheranno altri, e dovranno ricordare e reimparare il loro uso. Perdere la casa senza perdere la vita è una strana morte e una lenta resurrezione. Rimane un seme intimo di vita, che dovrà di nuovo mettere radici e nuovamente crescere in arbusto e pianta.
La sventura dei terremotati ci impegna a soccorrerli, mentre essi soccorrono noi col suggerirci una saggia e prudente meditazione sulla precarietà della sorte, di cui il terremoto è massimo emblema, dalle fondamenta della terra e dalla improvvisa interruzione del tempo. Se pensiamo che continuamente, sulla terra, la guerra organizzata mira criminosamente a distruggere case e vite, tremiamo di vergogna e fremiamo nell’impegno umile e tenace di ricostruzione umana.

 

L'ACQUA E' UN BENE DI TUTTI

Francesco GESUALDI

Regna molta confusione sotto il pelo dell’acqua. Confusione di ruoli, confusione di idee, confusione di termini, in una parola confusione politica, che poi è ciò che interessa. Per cominciare: come è gestita oggi l’acqua? In regime pubblico o privato? Pubblico, rispondono tutti i partiti a gran voce. Per due ragioni: perché gli acquedotti sono di proprietà dei comuni e perché le  società che li gestiscono sono prevalentemente a capitale pubblico. Acque SpA, ad esempio, la società che gestisce l’acqua nel Basso Valdarno, è posseduta per il 55% dai comuni del compren-sorio e per il 45% da Abab, una società partecipata per il 30% da privati come Suez o Monte dei Paschi e per il 70% da Acea, società controllata dal comune di Roma. A conti fatti l’80% di Acque Spa è dei comuni, ergo è pubblica. Ma il diavolo si annida nei dettagli, i comuni non gestiscono l’acqua in forma diretta, la gestiscono tramite società per azioni. Il che li rende simili a dei genitori che non avendo più voglia di prendersi cura dei figli li affidano ad un parente pedofilo. I figli non hanno cambiato cognome, sono sempre in famiglia, ma si può dire che siano ben accuditi?
Fra un comune e una società per azioni passa la stessa differenza che c’è fra un monaco buddista e un soldato di ventura. Il monaco buddista persegue la fratellanza, la nonviolenza. Il soldato di ventura è dedito al saccheggio, alla violenza, regola ogni rapporto a fil di spada. Se il monaco buddista affida la propria comunità al soldato di ventura, ha un bel dire che il suo monastero è una casa di pace, in realtà  è un luogo di torture. Per legge la società per azioni non ha altro compito se non la ricerca del profitto  per i propri azionisti. Che poi l’azionista sia un comune o un signor Rossi qualsiasi, dal suo punto di vista non cambia niente. Il suo obiettivo rimane quello di espandere i ricavi e di comprimere i costi per creare un utile più alto possibile. Così, sotto il governo delle spa, l’acqua smette di essere un diritto e si trasforma in merce, i comuni smettono di essere tutori del bene comune e si trasformano in padroni sanguisuga, il pubblico smette di essere la casa della solidarietà collettiva e si trasforma in mercato spilorcio. Padrone pubblico, gestione privata, questa è la contraddizione vissuta oggi dall’acqua.
La ragione invocata per affidare i servizi pubblici allo spirito capitalista si chiama efficienza. La tesi è che comuni, provincie, stato, in una parola il pubblico, è così asino, pigro e disonesto da risultare totalmente inaffidabile. Il privato, al contrario, sarebbe così intelligente, intraprendente e onesto da fare miracoli ovunque. Una sorta di re Mida che trasforma in oro tutto ciò che tocca. E sicuramente lo è, ma solo per l’arricchimento di sé stesso. Nel gennaio 2008 la dirigenza di Acqualatina è finita in manette per truffa aggravata e frode. Al centro dell’inchiesta,  subappalti truccati a favore di aziende del gruppo e manovre per intascare illegalmente decine di milioni di fondi statali. Nel gennaio 2009, il Comando della Guardia di Finanza della Provincia di Frosinone, ha denunciato Acea Ato5 Spa, per avere gonfiato illegalmente le bollette dell’acqua per milioni di euro, a scapito dei cittadini della provincia. Nel novembre 2007 l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha appurato l’esistenza di patti segreti fra Acea e Suez per penetrare nel mercato degli acquedotti toscani. E potremmo continuare con altre inchieste tanto per dire che l’onestà del privato è tutt’altro che da dimostrare. Come pure la sua efficienza che spesso si traduce in sacrifici per i lavoratori e arricchimento dei dirigenti. Ad esempio, Fausto Valtriani presidente di Acque spa ha diritto a un compenso lordo di 44.400 euro l’anno e a un gettone di presenza di 155 euro ogni volta che siede  in  riunione.
Ma la ragione forte per ricorrere all’imposta-zione privata è il bisogno di soldi per gli investimenti. Un’esigenza molto sentita nel settore dell’acqua, perché la rete è un colabrodo da un capo all’altro d’Italia. L’osservatorio di Legambiente della Toscana afferma che anche la rete pisana perde il 42% dell’acqua immessa in tubatura. Servirebbero investimenti per milioni di euro, i comuni non li hanno, lo stato non li dà, che fare? “Rivolgiamoci ai privati - gridano i politici in coro - loro i soldi li hanno”. I privati come Suez, Caltagirone, Pesenti, Veolia, si tuffano a pesce nell’affare, entrano come soci nelle società di gestione, ma quando si tratta di raggranellare i soldi per gli investimenti si guardano bene dal seguire la strada maestra che consiste nel mettere mano al portafogli per aumentare il capitale sociale. Non sono stupidi, i soldi non li vogliono tenere bloccati nelle casse aziendali, preferiscono tenerli in tasca per cogliere al volo ogni opportunità di guadagno offerto dalla speculazione finanziaria.  La conclusione è che i soldi si cercano in banca, magari presso le stesse che siedono come soci nella società di gestione dell’acqua. Ma qui vengono fuori nuovi problemi non perché le banche siano a corto di soldi, ma perché c’è un vizio d’origine nel sistema a tariffa. Nella logica d’impresa,  gli investimenti effettuati a debito si recuperano attraverso le vendite e se non ci sono le condizioni per piazzare nuove quantità di prodotto non rimane altra scelta che l’aumento dei prezzi. L’acqua è un caso di scuola: come dicono gli economisti la domanda è rigida, i consumi sono stabilizzati, inevitabilmente ogni nuovo investimento si traduce in aumento dei prezzi. Ma i direttori d’azienda sanno di non poter tirare troppo la corda, non possono spingere i prezzi oltre certi livelli, non rimane altro da fare che ridurre gli investimenti al minimo indispensabile. Il risultato è che mentre nel 1985 gli investimenti nel settore dell’acqua, a livello italiano, ammontavano a 2,3 miliardi di euro, nel 2005 sono scesi a 700 milioni di euro. Paradossalmente i prezzi salgono e i problemi rimangono, le condutture d’Italia continuano a perdere. Al colmo dell’assurdo le società di gestione sono arrivate a chiedere al  pubblico che sia lui a metterci i soldi. È successo a Firenze il 20 giugno 2008: Alfredo De Girolamo, presidente della Confservizi Toscana, prima ha messo in evidenza la necessità di realizzare opere idriche per 900 milioni di euro, poi ha esortato la Regione Toscana a dare i soldi per non fare ricadere i costi degli investimenti in tariffa. Investimenti pubblici, profitti privati: ecco il sogno dei capitani d’impresa, degni discepoli dello sceriffo di Nottingham che prendeva ai poveri per dare ai ricchi.
Benché i comuni d’Italia si stiano trasformando in società per affari, la funzione del pubblico non è dedicarsi alle vendite. Per questo ci sono già i mercanti. Il suo compito è proteggere la comunità e fornire servizi a rilevanza sociale. Nel caso dell’acqua, gli obiettivi da raggiungere sono preservazione e diritto. Preservazione perché l’acqua è una risorsa sempre più scarsa. Diritto perché assolve a funzioni vitali. Il primo obiettivo si raggiunge spendendo tutto quello che serve per costruire una rete priva di perdite ed educare la gente ad evitare gli sprechi. Il secondo obiettivo si raggiunge garantendo a tutti il fabbisogno minimo di acqua valutabile in quaranta litri giornalieri procapite. Due obiettivi che non possono stare nel meccansismo della tariffa, ma della fiscalità, una forma di pagamento che non è collegata a ciò che si riceve in cambio diretto, ma a quanto si guadagna. Chi più ha, più paga: questo è il principio di una fiscalità progressiva che si ispira a criteri di equità. L’opposto della tariffa che facendo pagare in base ai consumi tassa la vecchia pensionata come il magnate d’impresa.

 

 

PIOMBO FUSO

Giovanni TAMMARO

Gaza come in Afghanistan o in Iraq, chi semina violenza raccoglie solo  violenza, rancore, rabbia, ma non spegne il sogno e l’impegno degli uomini che amano la pace.

Voi ciechi paladini del diritto
che difendete la vostra  libertà,
con mille splendidi sofismi
e con la punta delle vostre spade
preservate l’ordine e la legge,
quanta rabbia
in quelle orrende buche
avete seminato,
bagnando la memoria
di sangue, lacrime e sudore?
Quanto odio è rifiorito
nel deserto e per le strade?
Quante mani e occhi di violenza
si son drizzati al sole
ad afferrare fieri la bandiera?
Non mieteremo grano
nei campi arati dalle bombe 
né sboccerà l’amore
nei giardini imperlati con il piombo.
Io canto  all’orizzonte
il mio  miraggio:
seppellire l’orgoglio tra le dune,
nel vento seminar parole audaci,
raccogliere fiori di speranze,
e  frutti maturi della tenerezza.
Giorno verrà:
la Parola sarà di nuovo carne
e tu potrai toccarla e consumarla,
saziarti il ventre e il cuore,
ritrovare la gioia e la bellezza.
Alzati, andiamo,
il nostro sogno è oltre le macerie:
La pace camminerà per sempre
insieme alla giustizia.

 

CLANDESTINI

Eleonora BELLINI

Proviamo a cambiare le parole
e anziché clandestino, immigrato
e straniero ed extracomunitario
diciamo Mohamed e Alina e Ivan
e Irina e Omar e Igiaba.

Poi facciamo scorrere
dinanzi agli occhi luoghi e storie
e fughe e speranze ed amori
e risa e pianto e dolori. La storia
di un uomo che nel buio incerto
del mattino pedala e va al cantiere,
il sorriso della donna che consuma
il suo veloce pasto nell’attesa
dell’autobus. Fatti di gente
e gente fatta di voce e
di occhi e di carne e di pensieri.

Poi torniamo
indietro negli anni quando erano
grigie e rare le foto e lì incontreremo
Rocco e Rosa e Luigi e Maria col fardello
dei figli, stretti al baule per il viaggio,
commossi e assai tremanti
al pensiero dell’incontro con lingue
sconosciute, con ignote
geografie. Paure da poveri e coraggio.

Poi guardiamo
nello specchio di casa il nostro volto,
figura d’altri volti antichi e nuovi,
volti sconosciuti - chi sa i nomi ed i luoghi
di qualcuno che risalga oltre i bisnonni? -
e lo vedremo figlio
di gente ignota e venuta da lontano:
antenati
a ciascuno comuni e clandestini
ci scorrono nel corpo, dentro il sangue.