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SOMMARIO del 130

 

In che mondo viviamo?, di G. De Capitani
Il dolore degli altri, di Maria G. Di Rienzo
Costruire il futuro. In carcere, di Enrico G.
L’equivicinanza, di Tonio Dell’Olio
Essere ponte, di Aldo Bifulco
Dal fare all’essere, di Pasquale Iannamorelli
Bisogno di eresia, di Valerio Pignatta
Gaza e nonviolenza, di Jean-Marie Müller
La decrescita..., di Gaia Calligaris
No ad “Africom”, di Alex Zanotelli
Il cammino della piccolezza, di T. Balduino
La vita non si stanca, di E. Peyretti
Uomo nonviolento, di Maria Milagros Rivera
Il dovere della memoria, di Franco Berardi
Noi, i privilegiati..., di Abbé Pierre
Tagli alla scuola, di Davide Pelanda
Italia più povera, di M.Vittoria Orsolato
Monasteri 3° millennio, di M. Pallante
Paura e speranza, di Giorgio Nebbia
Amnesia dei popoli ricchi, di Anna Maffei
C’è un’altra America, di Gianni Novelli
Il barbone bruciato, di Vincenzo Andraous
Renitenti in Israele, di Omer Goldman
La pagina Celestiniana
Per non dimenticare Fabrizio De André
Lettere a Qualevita
La pagina della Bibbia
Qualevita notizie

 

 

EDITORIALE del numero 130

GLI AQUILONI DI GAZA

Ettore MASINA

Vi sono momenti in cui la storia e il vangelo si incrociano e pare si confermino a vicenda. Il 28 dicembre di ogni anno la Chiesa rilegge la pagina del Nuovo Testamento in  cui si racconta della strage di bambini di Betlemme ordinata da Erode. La Chiesa definisce quei piccoli con il nome di Santi Martiri Innocenti. [...] Non con le parole ma con la morte testimoniano la realtà tutti i piccoli schiantati  dalla nostra follìa o dalla nostra inerzia. Siano i bambini violati dai “turisti del sesso” o quelli schiacciati dalle fatiche di certi lavori “minorili”,  le creaturine vietnamite che nascono deformi a causa dei defolianti disseminati dagli americani durante la guerra; o siano  i ragazzini-soldati di certe aree africane o quelli uccisi, mutilati o psichicamente straziati dai conflitti, come i piccoli afghani e congolesi e sudanesi, quelli israeliani assassinati dai terroristi o, adesso, quelli massacrati dall’esercito israeliano, le vittime infantili del nostro tempo testimoniano che il male distende le sue ali di tenebra in tutte le epoche e i luoghi, e può insediarsi nel cuore di ogni uomo.  I bambini violati e uccisi  accompagnano con le loro ombre il nostro cammino e vanificano con i loro lamenti o i loro insanguinati silenzi la nostra pretesa di essere autori di una civiltà sempre più “umana”: giusta, cioè, libera, generosa. E tenera. [...] Gaza,  la strage di tanti bambini (e dei loro genitori), la nostra pretesa di neutralità o addirittura la nostra compassione pesata al bilancino per l’una e l’altra parte in lotta, sono una tragedia alimentata dalla disinformazione o dalla manipolazione dell’informazione. Se i palestinesi, i loro diritti violati, la libertà che gli viene negata sono così spesso ignorati da noi, cioè condannati, da mezzo secolo, all’insignificanza, è perché l’opinione pubblica internazionale è stata fortemente condizionata dalla propaganda israeliana. [...]
Quarant’anni di dominio militare con l’uso di punizioni collettive (le case abbattute, i blocchi stradali che per giorni e giorni isolano villaggi e città, impedendo il transito persino alle auto-ambulanze), la diffusione dell’uso della tortura, l’imprigionamento di ragazzi, la chiusura delle scuole, la devastazione degli uliveti, l’erezione di un muro che taglia paesi e li separa dai campi, il sequestro di terre per i villaggi dei coloni armati, hanno avvelenato l’anima dei due popoli. Da un lato (quello palestinese) la ferocia di un terrorismo che per essere segno di disperazione non è meno criminale, oppure una rassegnazione che spinge all’inerzia, la corruzione di buona parte della dirigenza politica, un crescente fondamentalismo  religioso. Dall’altro lato (quello israeliano) l’uso della paura e dei raid come strumento elettorale, una cultura violentemente razzista e nazionalista, la convinzione che gli arabi siano del tutto inaffidabili e persone senza dignità.  I grandi scrittori di Israele (gli Yehoshua, i Grossman, gli Oz….) registrano con dolore questo scadimento etico, che si estende al trattamento dei cittadini arabo-israeliani. Spesso il comportamento delle truppe di occupazione è tanto crudele che quando, ai tempi della prima Intifada, Yitzchak Rabin suggerì ai soldati di non sparare contro i ragazzi palestinesi che lanciavano pietre ma di spaccare loro le braccia, egli fu considerato una “colomba”, un buono e persino un “molle”.
Gli psicologi israeliani denunziano l’insorgenza di nevrosi collettive. Vi sono segni di insensibilità crescente. Eccone uno, di oggi: “Piombo fuso” è un giocattolo donato ai bambini israeliani nella recente festa di Hanukkah.  I generali hanno dato questo nome (Operazione Piombo fuso) ai piani dell’offensiva contro Gaza. I generali sanno bene che metà della popolazione di Gaza ha meno di 15 anni…  E sanno che Gaza e la Striscia, con 2500 persone per chilometro quadrato, sono la più popolosa area della Terra. Bombardarla dal cielo e dal mare, come è stato fatto, o invaderla per combattere casa per casa significa mettere in atto un macello che ricorda certe imprese naziste.
Scrivo queste cose non per esecrare il popolo di Israele, al quale auguro invece di tutto cuore di diventare propulsore di pace e di benessere, ma perché sono convinto che molti non le sappiano, e che, invece, la diffusione della verità sia la strada necessaria alla giustizia. Ma interessa la verità  ai mass-media italiani? [...]
Milioni e milioni di italiani (la grande maggioranza) hanno come esclusiva fonte di informazione il TG1. Da anni questa testata affida il notiziario sull’area medio-orientale a un giornalista, Claudio Pagliara, che è certamente assai meno obiettivo dei giornalisti israeliani. Per esempio, continua a ripetere che l’offensiva israeliana è dovuta al fatto che Hamas aveva rotto la tregua stabilita con Israele. In realtà Hamas ha deciso di non rinnovare la tregua scaduta, motivando questa decisione con l’inasprimento del blocco alla Striscia e il bombardamento del 4 novembre, che ha causato la morte di 6 miliziani. In questo modo – ha scritto la stampa israeliana – si è  “innescato un nuovo ciclo di pericolosa, anche se controllata, violenza, caratterizzata da occasionali colpi ed incursioni da parte di Israele e da corrispondenti lanci di razzi e  spari da parte palestinese” (Daniel Levy, Haaretz, 19 dicembre”).  [...]
L’inviato del TG1 non si è mai dilungato sulle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza dall’assedio israeliano sottolineate da altri suoi colleghi: “L’assedio di Gaza ha distrutto per un’intera generazione la possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta” (Tom Seghev, Haaretz 29 dicembre 2008); e anche “Mancano l’acqua, l’elettricità, i medicinali e il personale sanitario è spesso costretto alla drammatica scelta di quali feriti curare e quali abbandonare a se stessi, (New York Times, 1 gennaio 2009).
Concludo questo tragico cammino per le strade insanguinate della Palestina e di Israele facendo mie le parole con le quali Pietro Ingrao ha commentato la strage in atto a Gaza: “Sono convinto che non è con quella violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo, temo che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per gli estremisti disperati di Hamas”. Nel 1991 io credetti di vedere nascere nei campi profughi una nuova leva di kamikaze. Ricordo gli occhi di un quindicenne a Deishah mentre mi raccontava del pianto disperato di una sua sorellina quando, a un chek-point un soldato le aveva sventrato una bambola, convinto che in essa si celasse dell’esplosivo. A Gaza ci sono più di 750 mila bambini. Ricordo con il cuore che piange gli aquiloni che essi levavano in mezzo al fango dell’inverno in cui li vidi e che mi sembrarono speranze levate verso il cielo. Quanto odio sta fermentando nel cuore di quei piccini, accanto alla paura? Non solo le lacrime degli orfani ma anche il rancore muto, e forse ancor più desolato, degli orfani “psicologici”: quelli che si sentono traditi da un padre che sembra non sapere, non volere difenderli, lui stesso terrorizzato, affamato. Che ricco raccolto per gli estremisti, per la violenza del loro odio che a un bambino può sembrare forza. I sedicenti amici di Israele non lo capiscono?

 

LA TEORIA DELL’EQUIVICINANZA

Tonio DELL’OLIO

In questi giorni mi capita frequentemente di discutere con tanta gente della tragedia in corso nella Gaza Strip. Altrettanto frequentemente mi sento rivolgere l’accusa di essere poco equidistante o troppo equidi-stante rispetto ai due popoli e alle violenze usate dai palestinesi e dagli israeliani. Il giudizio ovviamente cambia a seconda delle posizioni dell’interlocutore.
In un conflitto tanto evidentemente sproporzionato nessuno che abbia un briciolo di buon senso può parlare di equidistanza a fronte del numero delle vittime, dell’efferatezza del fuoco, delle distruzioni e dell’odio che si sta seminando nel terreno della storia. Credo piuttosto che si dovrebbe parlare di equivicinanza.
Equivicinanza a tutte le vittime, sempre. Al di là del passaporto che hanno in tasca, dell’appartenenza nazionale, etnica, razziale, politica, ideologica.
L’equivicinanza ti fa scegliere di stare dalla parte delle vittime biasimando tutti coloro che ricorrono all’uso della forza e che credono che la violenza possa risolvere qualcosa. Stare contro coloro che continuano a ritenere che anche la morte di un solo bambino (purché della parte avversa) possa essere un sacrificio necessario per il raggiungimento del proprio obbiettivo di sicurezza, di autonomia, di riconoscimento.
L’equidistanza ti porta a non prendere posizione, l’equivicinanza ti muove verso gli sconfitti. L’equidistanza ti lascia comodamente nel salotto di casa tua mentre l’equivicinanza non ti lascia dormire la notte e ti inquieta fino a quando non avrai fatto tutto il possibile perché l’orrore finisca.
L’equidistanza pensa agli effetti diplomatici e politici delle tue parole e stai attento a non pronunciare frasi che rovinino le tue amicizie.
L’equivicinanza dice pane al pane e vino al vino perché solo la verità senza annac-quamenti può aiutare tutti e tutte a rendersi conto della realtà e a risparmiare vite umane.
L’equidistanza giura a se stessa di citare le vittime israeliane ogni volta che si contano gli uccisi palestinesi.
L’equivicinanza non teme di chiamare ge-nocidio quello che sta avvenendo a Gaza e sa che i razzi di Hamas sono il terrore delle popolazioni al confine e che sono puntati contro la speranza.
Non aiutano a far comprendere la causa palestinese alle coscienze del mondo.
L’equidistanza ti fa guardare da lontano e super partes obiettivi, statistiche e numeri freddi. L’equivicinanza ha il coraggio di ascoltare tutte le storie e di chiamare per nome le vittime.
L’equidistanza c’è già nel vocabolario italiano e pertanto è stata sperimentata tante volte con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
L’equivicinanza è sottolineata in rosso anche dal programma del pc e pertanto è soluzione creativa che potrebbe introdurre un elemento di novità nella soluzione di ogni stupida guerra.

 

DAL FARE ALL’ESSERE

Pasquale IANNAMORELLI

Sollecitato da parecchi lettori di questi fogli e dall’impegno a mantenere viva la memoria di Valentina, molto sommessamente continuo a condividere dal mio “eremitaggio” abruzzese alcune riflessioni sulla necessità di difendere aspetti trascurati del pianeta misterioso chiamato vita. Con la traumatica scomparsa fisica di Valentina ho imparato faticosamente a pensare che le persone – tutte le persone – sono “progetti” e non che i progetti hanno bisogno delle persone.
Folgorato da una limpida osservazione di Etty Hillesum, penso che occorre accantonare la sottile e subdola ideologia del fare la quale schiaccia – senza che nemmeno ce ne accorgiamo – la bellezza dell’essere.
ESSERE significa non solo abbattere muri, ma costruire argini alle inondazioni dell’apparenza sulla sostanza, della menzogna sulla verità, del superfluo sull’essenziale, del fare sull’essere.
ESSERE ci spinge a prendere la strada della lentezza. Chi vive unicamente per produrre, unicamente per accumulare e possedere, unicamente per mettere in mostra gli oggetti o le persone che gli appartengono, si illude e crede che questo sia dare un senso alla vita e invece la sta dilapidando.
ESSERE è imparare ad esercitare l’arte della tenerezza. È una carezza data. E ricevuta. Quando incontro un mendicante, spesso mi fermo un minuto a parlare, non per chiedergli perché lo fa, ma semplicemente per fargli intuire che, oltre ai miei pochi centesimi, ho voglia di regalare e ricevere un sorriso. Avere pensieri, informazioni su queste e altre persone più deboli, non garantite, senza avere il cuore “occupato” da loro, non serve proprio a niente.
ESSERE è non imboccare mai le scorciatoie, ma affrontare a viso aperto i problemi, i conflitti. La via della facilità, della furbizia, porta inevitabilmente alla competizione che, senza accorgercene, ci toglie uno dei beni più importanti, la gioia di vivere.
ESSERE è il porre un freno al nostro spesso occulto egoismo che ci porta ad accumulare beni – anche culturali, anche interiori – per un nostro esclusivo consumo. E siamo talmente ciechi da non accorgerci che l’egoismo è come il cancro. Questo si sviluppa quando alcune cellule vogliono accaparrarsi le risorse e lo spazio per se stesse e si moltiplicano finché divorano tutto il corpo. Ma alla fine sono destinate a morire anch’esse perché non hanno più altre cellule da depredare.
ESSERE è mantenere alta l’indignazione in una società che esalta l’arroganza della forza, la rincorsa alla ricchezza, la supremazia dei prepotenti, l’annientamento del nemico.
ESSERE vuol dire impiegare le nostre migliori energie per acquisire l’autonomia interiore. “La nascita di un’autentica autonomia interiore – scriveva Etty Hillesum – è un lungo, doloroso processo. È la presa di coscienza che per te non esiste alcun aiuto o appoggio o rifugio presso gli altri, mai. È rendersi conto che gli altri sono altrettanto insicuri, deboli e indifesi e che sei sempre da capo rimandata a te stessa, poiché il resto è finzione”.
ESSERE non è riempirsi la bocca di diritti umani, tolleranza, pace, ma offrire con discrezione il nostro tempo, le nostre energie, le nostre abbondanti o minime risorse a chi bussa in tanti modi alla nostra porta. Questo è condividere. Questo vuol dire “essere pace”.
ESSERE può significare, oggi, rallentare, fermarsi, entrare in relazione, assaporare un tramonto del sole come lo sguardo implorante di un vecchio abbandonato. Significa, in una parola, non avere l’ossessione rispetto al tempo. Robert Musil, nel suo libro L’uomo senza qualità, descrive questa nostra fissazione con poche, illuminanti parole: “Erano invasati dalla paura di non avere tempo per tutto e non sapevano che avere tempo significa precisamente non avere tempo per tutto”.
ESSERE vuol dire conservare la capacità di stupirci, di intravedere luci di speranza in questo mondo spesso tenebroso e non isolarci mai in quelle che Primo Levi chiamava “le nostre tiepide case”.
Etty Hillesum, il 30 settembre 1942, poco più di un anno prima del suo passaggio per il camino di Ausch-witz, nel suo Diario annotava: “D’ora in poi il mio “fa-re” consisterà nell’ “essere”. Se lei lo scriveva e lo realizzava all’interno di un lager, tanto più possiamo farlo noi nella “normalità” delle nostre situazioni.