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SOMMARIO del 129

Il futuro dei miei, di Alessandro Ghebreigziabiher
Lettera alle maestre, di Giannozzo Pucci
Lettera aperta a chi difende la scuola
Impariamo ad ascoltare, di Pasquale Iannamorelli
Don Zeno Saltini, di Remo de Ciocchis
Il nucleare non serve all’Italia, di Leonardo Carletti
C’è un’altra America, di Gianni Novelli
In ricordo di Ivan Illich, di Francesco Comina
È iniziata la decrescita!, di Andrea Bertaglio
Intervista a Serge Latouche, di Giorgio Gregori
Il pensiero di Lanza del Vasto, di Tonino Drago
La pagina celestiniana
I libri consigliati da Qualevita
L’acqua non è una merce, di Alex Zanotelli
Monasteri del 3º millennio, di Maurizio Pallante
Lettere a Qualevita
La pagina della Bibbia
Il Vangelo deve liberare, di Leonardo Boff
Abbonamenti e libri di Qualevita
Qualevita notizie

 

 

 

EDITORIALE del numero 129

La sfida che ci viene posta a Natale rende questa festa terribile e meravigliosa. Natale ci fa figli e genitori della speranza poiché Dio la fa diventare carne e ce la affida come se fosse una nostra bambina. Accogliendo questa speranza, noi avvertiamo soprattutto la sua fragilità. Che fare, se tutto il mondo appare strutturato per ucciderla così come l’odio e l’avarizia di Erode massacrano gli innocenti? La risposta è difficile, talvolta sembra del tutto impossibile. Ma ciò che è importante, fatale per la nostra salvezza è che noi ci poniamo incessantemente la domanda: che fare? Non rassegnarci. Non accettare che il Signore continui a gemere sulle infinite croci della terra. Quello che già sappiamo è che dobbiamo uscire dalle nostre solitudini, superbe o disperate che siano, tessere reti di fraternità, imparare a creare progetti d’amore, cogliere le nostre responsabilità.
Troveremo a tutti gli incroci sapienti che ci spiegheranno, maestosamente o sorridendo, che un mondo diverso non  è possibile. Non dobbiamo lasciarci ingannare da quelli che papa Giovanni definiva “profeti di sventura” né dai potenti che amano appassionatamente lo status quo; né dagli “esperti” al loro servizio.
Penso alla differenza fra i pastori e i magi.
I pastori sono destati da un angelo che li spinge a levarsi e a camminare nelle tenebre, sino a trovare qualcosa che assomiglia  a ciò che essi conoscono  così bene: un bambino in fasce, deposto in una mangiatoia perché il calore di un animale domestico lo riscaldi dal gelo della notte. Si domandano l’un l’altro  che significhi tutto ciò ma si arrendono facilmente alla risposta del compagno: “Non so, ma se lo dice un angelo…”. È a Dio che si affidano. Vanno dunque alla Grotta e dopo avere consegnato i loro doni di solidarietà se ne tornano nelle tenebre ai loro fuochi. Ne parlano con altri poveri, non con i capi e i cortigiani - e difatti Erode non ne sa niente: i poveri conoscono da sempre la necessità del segreto.
Ed ecco i magi. Quando la stella che li aveva guidati improvvisamente svanisce,  loro si guardano bene dal chiedere notizie ai poveri che incontrano. Essendo persone importanti, come si evince dai loro doni, è naturale per loro rivolgersi a un Alto Personaggio, cioè a Erode; e il re è pronto ad aiutarli, a esibire i suoi sapienti. Che forniscono il responso. Ma  intanto organizza la sua violenza omicida. I pastori donano solidarietà, i magi, gli “importanti”, scatenano, senza volerlo, la strage degli Innocenti.
Io continuerò, se possibile, a nutrire di ragioni la mia fede ma sono sempre più convinto che essa debba accogliere, accanto al magistero dei Sapienti, quello dei Poveri, le loro illimitate capacità di speranza e di condivisione. Troppe tragedie  incrinano la Terra se le decisioni vengono prese senza di loro, sopra di loro. Nella Notte della Nascita gli angeli cantano il benvolere di Dio per tutti ma anticipano la gioia di Gesù: “Ti benedico, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e a quelli che contano e le hai rivelate ai piccoli”.
“Rendete conto della speranza che è in voi” ci raccomanda il vecchio Pietro nella sua prima Lettera. Testimoniare la speranza che nasce il 25 dicembre, ben più luminosa del Sole invitto o delle luci della Santa Claus Corporation, non può essere soltanto sommessa preghiera individuale e festa di famiglia ma anche incessante progetto e costruzione di comunità. E infine deve essere l’assunzione, come linea guida della propria testimonianza, la certezza che il Cristo è Signore della storia; e che, come diceva Ernst Bloch,  le tenebre che talvolta sembrano avvolgerci d’angoscia possono essere il buio che regna ai piedi dei fari.
Io penso che anche dietro i lustrini e le musichette, le indigestioni e i doni esagerati, gli alberi di Natale ingioiellati come baronesse e lo sbattere giulivo dei registratori di cassa vi sia in molti, in moltissimi che pure ci appaiono inghiottiti da una festa pagana, una nostalgia di immenso, di bontà, di senso della vita. Forse non è temerario pensare che nelle mani di noi cristiani domenicali, incoerenti, pasticcioni, vi sia l’unico dono che può fare più bella una festa: la parola di Dio, la profezia che viene da altri millenni per darci nostalgia del futuro: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse…”.
È la luce della fraternità solidale che i pastori esprimono con i loro doni; è una luce che, con gioiosa meraviglia, ci capita di trovare talvolta in noi se invece di guardare alle nostre apprensioni e alle nostre incertezze ci lasciamo andare alla voce che ci chiama a smuoverci dal nostro pessimismo e a guardare ai segni positivi dei tempi.
Penso, per esempio, alla voce del santo pastore luterano Dietrich Bonhoeffer che 63 anni fa, prima di salire il patibolo nazista, del tutto consapevole del suo destino scriveva:
“L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica per sé”.
Gesù, a Betlemme, viene a chiederci di non lasciare il futuro agli avversari della giustizia e della dignità umana.

 

IMPARIAMO AD ASCOLTARE

In una sua poesia Mario Luzi, con l’intuizione fulminante dei grandi poeti, dice che “anche ogni pietra parla e non si sta ad ascoltarla”. Anche ogni pietra. Figuriamoci le persone: quelle che ci scivolano accanto mentre camminiamo per strada, quelle sedute alla cassa di un supermercato, costrette a sorriderci per contratto e che spesso pare vogliano dirci “non ne posso più”, i compagni di lavoro che stanno vivendo una situazione pesante in famiglia, il senegalese che sgrana i suoi occhioni imploranti mentre sbirciamo con disprezzo nel suo borsone stracolmo... E nessuno sta ad ascoltarli.
La comunicazione è come inoltrarsi in un giardino: alcuni fiori sono aperti, si possono ammirare in tutta la loro bellezza o anche nel momento del declino, altri sono completamente chiusi e non se ne può neppure immaginare lo splendore o la pochezza, altri ancora proprio allora stanno sbocciando: è la fase più delicata, non si può accelerarne l’apertura con le dita perché verrebbero irrimediabilmente rovinati. Ma ad ogni fiore va comunque riservata la cura necessaria. Si ascolta con le orecchie, con il corpo, con gli occhi, ma soprattutto con il cuore.
E a questo punto devo confessare perché ho pensato di proporre a voce alta una mia riflessione sull’a-scolto. In questi giorni, a distanza di dodici mesi, qui nella redazione di Qualevita, stiamo rivivendo febbrilmente e drammaticamente le ore trascorse in una squallida stanza di ospedale, accanto a Valentina, che l’11 dicembre di un anno fa ci avrebbe lasciato. In quei lunghi, inesprimibili momenti, ho capito quanto sia importante ascoltare. Di fronte a una creatura crocifissa, che non poteva esprimere più neppure un desiderio, un pensiero, una speranza, perché un taglio alla trachea non permetteva la fuoruscita di un suono vocale, quell’essere umano ridotto all’impotenza esprimeva in tutti i modi un unico, irrinunciabile bisogno: quello di comunicare e di essere ascoltata.
Ecco allora perché ho sentito la necessità di partecipare a chi legge questi fogli la mia scoperta di quei giorni: molte volte non si può ascoltare con le orecchie, perché la persona che abbiamo di fronte è impossibilitata a parlare, o semplicemente non vuole o non ce la fa, ma attraverso il “cuore” si riesce ad ascoltare in qualunque circostanza, anche la più impervia, la più assurda, la più impossibile. A patto che siamo disposti a tenerlo sempre aperto.
Quello che conta è la disposizione a condividere le emozioni, e per farlo occorre immedesimarsi in chi ti parla, magari soltanto con gli occhi o con le rughe della fronte, bisogna lasciarsi andare per far diventare proprie le sue sofferenze, come le sue gioie e i suoi desideri.
Se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo riconoscere che non siamo abituati ad ascoltare. Può risultare facile porsi in ascolto dell’altro per conoscere delle cose, delle notizie. Per coinvolgerci emotivamente occorre ascoltare non solo le parole della persona che ci sta di fronte ma osservarla con attenzione e cogliere ogni sua espressione, ogni suo gesto, il tono della sua voce: sono questi i mezzi talvolta impercettibili attraverso cui si dipana un intero “colloquio”. È dal non detto che spesso si intuisce più di quanto viene espresso con un fiume di parole.
Sicuramente però il livello più alto dell’ascolto è quello nel quale riusciamo a vivere in noi stessi ciò che l’altro sta vivendo: è il livello dell’accoglienza, della condivisione, della comunione.
In quei giorni strazianti e terribili vissuti con Valentina ho imparato che ascoltare significa avere dell’altro che implora in silenzio, il rispetto che si ha di un luogo sacro, un luogo che richiede somma venerazione e nel quale si entra in punta di piedi.
Impariamo ad ascoltare. Ce ne verrà in cambio, anche di fronte al dramma di un grande dolore, una inaspettata ricchezza e una gioia folgorante.
Sì, perché imparare ad ascoltare significa imparare ad amare. Ci può essere un ascolto senza amore ma non ci può mai essere amore senza ascolto.