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SOMMARIO del 128

L’agire dei violenti e il silenzio degli onesti, di Anna Maffei
Olimpiadi e Diritti umani, di Carlo Sansonetti
Silone sul sentiero di Celestino, di Mario Setta
Le ultime ore di Ignazio Silone, di Darina Silone
Se questa è vita... di Pasquale Iannamorelli
Schiaffi in faccia al futuro, di Vincenzo Andraous
Monasteri del terzo millennio, di Maurizio Pallante
La feccia è al colmo, di Alex Zanotelli
• Scadenza programmata, di Andrea Bertaglio
Prendiamoci le mani..., di Silvia Berruto
• La ripresa del nucleare, di Angelo Baracca
Quale futuro... buon appetito?, di Roberto Biza
La pagina celestiniana
I libri consigliati da Qualevita
Assemblea Nazionale del MIR
Lettere a Qualevita
La pagina della Bibbia
Come esseri umani..., di Maria G. Di Rienzo
GIORNI NONVIOLENTI 2009
Qualevita notizie

 

 

EDITORIALE del numero 128

DEPORRE SEMI NELLE CREPE DI UNA CIVILTÀ SENZA AMORE

Ettore MASINA

In una situazione in cui le linee direttive del progresso sono stabilite dagli interessi del cosiddetto Mercato, cioè da un numero sempre più ristretto di persone e di centri di potere, è ben difficile dire chi decida cosa, e soprattutto se vi sia chi, e dove, decide in nome della dignità dell’uomo, della salvezza della sua libera identità. La forza di quello che una volta veniva definito “lavaggio del cervello” è divenuta quasi irresistibile. Sono state sconfitte alcune ideologie ferocemente oppressive ma impera, in misura del tutto inedita, quella del consumismo, cioè dell’egoismo individuale e collettivo, spesso addirittura considerato virtuoso (ricordate lo spot “grazie! grazie!”?) perché rilancia l’economia. Gli appelli pubblicitari elaborati con l’utilizzo di strumenti scientifici e tecnologici sofisticatissimi, non soltanto ingenerano in noi, e soprattutto nei bambini e nei giovani, bisogni del tutto artificiali ma anche, contemporaneamente, distruggono la possibilità di saziarli. Le aziende transnazionali ci aggrediscono ad ogni stagione per convincerci che ciò che è vecchio, magari vecchio di mesi, è obsoleto, non più degno di noi, da mutare; ci inseriscono, cioè,  in una deificazione della provvisorietà in cui ciò che non viene cambiato è segno di inferiorità sociale: soltanto il nuovo, dunque il provvisorio, può garantire  la felicità. È la vecchissima storia dell’uomo che cavalca l’asino tenendo in mano un bastone con appesa una carota; la bestia insegue la carota e corre e corre senza sapere che non la raggiungerà mai.
Se il fine della vita è quello di una nostra personale gratificazione quotidiana, allora tutto ciò che è regola di solidarietà comunitaria, di austerità finalizzata a dedicare tempi e strumenti al servizio della fraternità è un limite da rimuovere. Bisogna (e ci si abitua a farlo) zittire le voci interiori che cercano di parlarci di amore, alzare il baccano degli altoparlanti, abbandonare la sgradevole autorità di certe Parole. Le stesse leggi dello Stato, frutto di secolari tradizioni e di una civiltà faticosamente elaborata, sembrano inutilmente scomode, nemiche della libertà individuale. “Meno stato, più mercato” è il grido dell’egoista che gode di agiatezza. Il Mercato è il suo datore di lavoro, dunque il suo padrone: padrone di tutto il suo mondo, dunque anche della sua anima.
Erano tempi orrendi anche i nostri, ma certamente il Male era – come dire? – più elementare, grossolano e dunque riconoscibile. Tre anni fa abbiamo celebrato il sessantesimo anniversario del martirio di Dietrich Bonhoeffer, impiccato a un gancio nella prigione di Flossemburg, e il sessantesimo anniversario della Liberazione, molti di noi hanno visto il film sugli eroici giovani della “Rosa Bianca” decapitati dai nazisti: nell’orrore non vi fu soltanto la viltà del gregarismo dittatoriale ma anche la rivolta dei “ribelli per amore”, di chi aveva una cultura degna di questo nome, lucidità di giudizio e trovò nella necessità interiore di insorgere un coraggio che non aveva pensato di avere.
Oggi il Male è più sottile, ha mezzi ben più subdoli. Ricordo un incontro romano con Lanza del Vasto, durante il Concilio. Eravamo poche persone, pochissime, ma lui parlò a lungo con calore evangelico. Fu una splendida lezione  sul diavolo. Il diavolo, ci spiegò questo discepolo italiano di Gandhi, ha abbandonato per sempre l’odore di zolfo, le corna, le bestemmie, la proclamazione del vizio. Il diavolo si presenta oggi come un moralista, una persona di buon senso, un “esperto” capace di risolvere problemi inquietanti, un amico generoso che si offre di aiutarci nelle nostre difficoltà, di rendere più piena la nostra vita. Ma allora come  identificarlo? – chiedemmo.  Il   vecchio rispose: esaminando in profondità i frutti dei suggerimenti che ci rivolge, verificando se ciò che egli propone semina fraternità o, al contrario, crea o indurisce divisioni, perché è per questo che si chiama diavolo, perché diavolo vuol dire colui che divide.
Nella Bibbia,  il libro dei Numeri racconta un episodio dell’Esodo che mi sembra significativo. Gli israeliti sono accampati nel deserto e il Signore suggerisce a Mosè di mandare esploratori nella terra di Canaan. Dodici uomini vi penetrano e la scoprono meravigliosamente ricca ma presidiata da forti popolazioni. Al ritorno, poiché sembra loro che il profeta non dia sufficiente orecchio alle loro paure, essi mentono, ingrandendo enormemente il pericolo: in quella terra, dicono, hanno visto “uomini della razza dei giganti, di fronte ai quali ci sentivamo piccoli come locuste e locuste dovevamo sembrare a loro”.
Che mutamenti  sociali meravigliosi stiamo vivendo, penso, quando vedo che si moltiplicano i centri di accoglienza e di sostegno degli immigrati, i tentativi di mettersi insieme, in una felice austerità e in reciproco aiuto, in cui sono impegnate tante famiglie, le botteghe del commercio equo e solidale, le associazioni per le adozioni a distanza, i progetti di solidarietà per le vittime delle sciagure o dell’intolleranza politica e religosa, i gemellaggi scolastici, i centri di ricerca per uno sviluppo sostenibile o per una decrescita felice e quelli di documentazione, la capacità creativa di certi boicottaggi che con l’insurrezione dei consumatori riescono a imporre persino allo strapotere delle corporations transnazionali limiti allo sfruttamento dei bambini o delle donne. Molte, moltissime di queste iniziative non esistevano ancora pochi anni fa. Qualche volta a me pare che, come nel sogno di Teilhard de Chardin, un reticolo di luce avvolga il pianeta. E penso: forse quei famosi giganti  possono considerarci locuste, noi non possiamo combatterli in campo aperto, ma possiamo deporre nelle crepe della loro civiltà senza amore semi che frutteranno.

 

SE QUESTA È VITA...

Pasquale IANNAMORELLI

Mi permetto di continuare ad offrire – sommessamente – le mie riflessioni sulla preziosità della vita, sempre partendo dal terremoto che qui in redazione abbiamo subìto con la scomparsa imprevedibile e tragica di Valentina, una morte causata dalla superficialità, dalla supponenza, dal tecnicismo di una struttura sanitaria preoccupata unicamente di seguire “protocolli” e non di guardare negli occhi le persone sofferenti per accoglierne un grido impotente. Una morte provocata, come troppo spesso accade, dalla mancanza di rispetto per la vita.
La società disumana di cui facciamo parte minaccia, sfigura, distrugge i legami tra di noi. Ognuno è solo e, grazie a una convinzione molto diffusa, deve anche essere felice di sentirsi così.
L’apartheid non è soltanto l’invenzione di qualche gruppo razzista. L’apartheid è un modo di vivere, il sistema dell’ognuno-per-sé.
Quando gli operai di una fabbrica di armi prendono posto intorno al tavolo di lavoro, spesso non sanno quello che fanno. Ciò che interessa è produrre per ricevere in cambio una busta paga. Non importa che poi gli oggetti che escono dalle loro mani saranno portatori di morte a persone innocenti.
Oppure quando in una famiglia si decide di acquistare la terza automobile come regalo al rampollo che compie 18 anni o il super televisore al plasma di ultima generazione, i componenti di quel nucleo familiare non hanno coscienza di ciò che stanno facendo. Anche se poi, per coprire le spese, il padre dovrà fare gli straordinari e la mamma il doppio lavoro.
Siamo così tutti alienati dalla nostra produttività, siamo estranei gli uni agli altri e, come conseguenza, alla nostra vita.
I nostri bisogni di condivisione, di comunicazione, di solidarietà, di tenerezza, di calore umano vengono prima stimolati e poi, subito, trasformati in bisogni da soddisfare con un acquisto.
Respiriamo e ci nutriamo in un clima di immensa manipolazione delle coscienze. La nostra religione è il consumismo. E non vedo in giro eccessiva preoccupazione da parte di chi, in nome di Dio, dovrebbe arginare l’invasione di ogni specie di idolo. La lotta contro l’idolatria è soprattutto lotta contro quella idolatria subdola che ci porta a sottometterci a meccanismi che vengono presentati come assolutamente necessari. Consumare è uno di questi.
Se è vita quella che ci porta a chiuderci sempre più nelle nostre case per non ascoltare il grido e il fastidio degli altri...
Se è vita quella di chi si sente minacciato non dal proprio egoismo ma da un bambino che tende la mano o vuole lavare il vetro dell’automobile...
Se è vita quella di chi pensa di poter risolvere i propri problemi esistenziali riempiendo la sua casa di diecimila cianfrusaglie...
Se è vita quella che ci porta a inebetirci di fronte a un televisore e a perdere il gusto di una lunga, appassionata conversazione con i vicini di casa...
Se è vita, in una società cristiana, quella che non ci porta a riconoscere come peccato le strutture di potere che ci dominano, prima di tutte il dio mercato...
Se è vita quella in cui i più poveri non hanno più nemmeno la possibilità di esprimere i loro bisogni e i loro desideri...
Se è vita quella che ci porta a correre, correre, correre, produrre, produrre, produrre, consumare, consumare, consumare e mai a chiederci seriamente: «Ma quando si vive»?...
Come venir fuori da questo pozzo senza fondo? È impossibile fornire ricette, ma secondo me la prima cosa da fare è sconfiggere la paura di vivere.
Etty Hillesum, una ragazza olandese di origine ebrea, “cuore pensante” della baracca in un campo di sterminio nazista, ci insegna – con la sua vita e non a parole – il coraggio con cui affrontare la vita: «La maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure... Io mi trovo accanto agli affamati, ai maltrattati e ai moribondi, ma anche... vicina al gelsomino e a quel pezzo di cielo dietro la finestra. Nonostante tutto, sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato».
Se è questa la vita e non quella della corsa quotidiana, della produzione e del consumo, allora vale veramente la pena di essere affrontata, goduta, condivisa con gli altri. È  la relazione tra noi e la nostra interiorità che ha bisogno di cambiare, perché possano mutare le nostre relazioni con il mondo e con gli altri uomini. Ognuno, nel suo piccolo, potrebbe allora diventare “cuore pensante” della baracca-mondo.